L’arte come nudo sogno esatto, morbida equazione di pace, schermo trasparente e ingenuo della Realtà? O la dura e cruda Realtà che viceversa s’affabula, s’intorce – lava tutti i suoi sensi di colpa, memoriali o progressivi, in sogno aperto e pugnace degli eventi, pausa e salvezza onirica nell’affilata deriva del razionale?…
Anche quest’ultima opera e produzione di Daniela Tomerini, mi conferma che il bivio c’è, esiste: e non possiamo mai più eluderlo né con rinnovati credi artistici, né con vecchi, fin troppo esperti canoni esistenziali… Hic Rhodus, hic salta! E cosa dunque scegliere, tra la Realtà e il Sogno?…
Ma Daniela, sempre più me ne convinco, è coraggiosa e limpida proprio in questa sua strepitosa e facilissima scelta di non scegliere. Colpo di scena… Non più, insomma, il fin troppo classico, scontato: Sogno o son desta?… Bensì la trovata, la doppia veronica concettuale, equilibrista ed equilibrata, del suggestivo, inedito: Sogno e son desta!…

La donna più di tutte, in attesa di trovare Le parole per dirlo (il trauma cruciale, il femminismo romanzato e viscerale di Marie Cardinal), così come i pennelli per dipingerlo, le matite per disegnarsi – ha trascorso almeno la metà del secolo a costruirsi un alibi attendibile di doverosa, sacrosanta ed inquieta fuga onirica… Penso ai sogni/incubi psicotico-antropologici, visionari e folclorici di Frida Kahlo: Le due Frida, Ciò che ho visto nell’acqua e ciò che l’acqua mi ha dato, Perché voglio i piedi se ho le ali per volare… Oppure ai giochi archetipici, ai risvegliati rebus surrealisti di una Meret Oppenheim, venusta bellissima musa e modella di Man Ray: “1 gennaio 1936 – Vivo sulla terrazza, sul tetto di una casa nuova e molto alta. Tutt’attorno un’inferriata. Dico a me stessa: perché dicono tutti che vivo pericolosamente, se c’è la ringhiera tutt’intorno? Voglio seminare dell’erba, ma è proibito portare la terra qui su. Perciò semino su spessi strati di carta di giornale umida.”…
Finalmente, la doppia, per non dire tripla fuga nell’astrattismo: fuga cioè dalla sostanza esistenziale dei problemi, dalla forma scelta per affrontarli, romanzarli nel gesto creativo; fuga infine dalla società, e contro di essa, per liberarsi l’anima, emanciparsi l’identità stessa di femmina senziente, soggetto irrevocabilmente civile… Carla Accardi, ad esempio, aderì a “Forma 1” (1947) con una radicale riduzione cromatica al bianco e al nero, nel Grande Labirinto di un segno elaborato in forma quasi ideogrammatica…

Sogno o son desta?
Miracolo: Daniela Tomerini tiene i suoi occhi bene aperti, ma non dissipa, né perde i sogni. Li pulisce, li stende ad asciugare, sciorinare alla luce, si direbbe, come lenzuola d’un amoroso, intrigante talamo coniugale. Poi gioca a palla con essi, come poteva fare Nausicaa con le compagne lungo il mare salato da cui, all’isola dei Feaci, naufragò Ulisse, l’Uomo che adesso – qui, nella scena dei quadri e della Storia – resta finalmente escluso, è spostato, condannato fuori cornice; dorme ancora nudo di cicatrici e di gloriosa, virile presunzione nel buio cespuglio dei suoi ferrei conflitti o eterni progetti da perseguire. Le donne no: tornano o sono fanciulle baciate, perdonate, sedotte di luce.
Sogno e son desta…
Secoli di filosofia e di poesia catechizzano e insegnano a fare quello che Daniela ottiene, mima con pochi tratti dei suoi colori: riccioli, foglie, steli, papiri di segni, fiorami di stigmi, feriti cicatrizzati ricami, pizzi e languori di chiose, fruttificato candore di desiderio, o puro, macerato languore di colori, che l’arte offre alla vita, e la vita indossa, a sua volta, con l’eros visivo ed emotivo delegato all’arte… Alessandro Jodorowsky, nel suo delizioso, iniziatico manuale di Psicomagia, catalogava sogni umili e sogni generosi, sogni lucidi e sogni riparatori, sogni saggi e sogni creativi… Ed atto psicomagico è l’omeopatica, lirica adesione alle forme del proprio male che è già, in sé, guarigione.
La Tomerini è generosa e umile insieme: generosa di blue, eppur umile di verde; sospesa di giallo, dubbiosa di nero, rinfrancata di rosso… Perché tutta l’arte sia o torni ad essere terapia panica… “Difficile è la strada per Shu / Difficile come la scalata al cielo azzurro…” cantava la dolce, fermissima poesia del cinese Li Po, uno dei più grandi aedi non solo dell’epoca T’ang (618-907) ma di tutta la storia dell’uomo. Ma dobbiamo scalarlo, questo cielo azzurro che ci resta dentro, sogno su sogno, sguardo dopo sguardo, disegno dopo disegno – nell’aspro incanto d’una poesia che s’intercambia e collima tra gesto e segno, nota e parola, colori isolati o in danza nel bianco che li unisce…
Vedo questi disegni o sprazzi in luce di Daniela come convolvoli assoluti avvinti a steli di canapa, sole velato delle cime dei gelsi… E potrei anche aggiungere, con le parole ancora di Tu Fu o Po Chü-i: coppe di giada, fruscio delle foglie, fiori d’acqua a sera, piogge notturne, luna nella 105ª notte… “L’imponente viaggio dell’acqua è proprio un moto perpetuo, e il dramma dell’acqua” – intonava Kikuo Takano, forse il massimo lirico giapponese contemporaneo, come fluida e insieme irrelata, svaporante dichiarazione di poetica – “è simile alla trasfigurazione infinita dell’anima. Durante il suo lungo viaggio, solo l’acqua che per caso si è posata su una foglia di fiore di loto potrebbe affermare d’aver incontrato la propria luce e la sua vera immagine. Un attimo prima che l’acqua sgoccioli, ci sembra che una goccia d’acqua voglia rispecchiare tutto il tempo sul suo corpo dilatato. Oppure diventa un cristallo di neve, che scintilla come ardesse d’incontrare la propria immagine.”…

Ma non vorrei che una sana luce d’Oriente trattenesse questo viaggio che in realtà la riconduce a periplo – per trasparente circumnavigazione sia estetica che epocale, femminea dunque inaudita Odissea dello spirito – in seno al nostro temprato, roccioso Occidente, sull’isola moderna o omerica dove il Mito si chiama sempre e solo Tempo, e per unico Spazio si elegge, s’arrocca il Cuore… È una nuova creazione che rincorriamo, chiamiamo Amore – lì dove i pesci nuotano dentro nuvole di cielo, o gli steli s’irradiano, ci fioriscono già in bocca di sorriso, per ghirigoro od origami d’eterno che chiederebbe a Dio – se potesse, se volesse! – di giocare un poco con noi, di salvarci con supplementi di sogno, deviazioni e dedizioni di luce… Anche un albero, allora, è totem di coscienza, statua o rito dell’Umano crocefisso ma radicato di linfa, esploso di foglie nuove come un poema gemmato, baciato di mille versi. Uno ancora e la notte finirà – mille e una volta – per una favola che di terribile ha solo la realtà da cui era partita… Spighe, fiordalisi, fiori rossi… Orchidee inopinate, e bambù trasognati dal tachisme di Hartung… Rondini acquatiche, attinie celesti, bianchi o insanguinati coralli d’elegia… Angeli frastornati d’altissimo, con cui solo Rilke, dialogando, aggettivando policromi silenzi, ali sfiancate di preghiere, saprebbe colloquiare, sorvolare orizzonti, giocare nuovi ineffabili poemi… Un po’ come in quella Scrittura dell’eternità dorata, quell’indicibile, abbacinante sogno zen che il grande e scapestrato Jack Kerouac inseguì per tutta la sua vita, senza per fortuna raggiungerlo: “Che nome noi daremo a ciò che nome / non possiede, alla comune eterna sostanza della mente?”.
Non ci son fiori botanici o banali nel Paradiso vero della Luce, geroglifici o schizzi per una serra che terrà sempre e comunque fuori l’inverno rigido, ventoso, ed il cinismo di chi vuole impedire all’Uomo, mite o arcigno che sia, di redimersi, ed alla Storia, in fondo, di sognarsi migliore – e agguantare, conquistare il tepore lieve, benedetto del Sogno…
“Il vento” – scriveva tempo fa Daniela in una sua dolce, chagalliana favola che io mi sforzo e pregio di prolungare, ripensare in immagine – “con le sue dita maldestre scherzava con me allontanandomi e riabbracciandomi. Come un innamorato, bisbigliava parole tenere e urlava il mio nome, poi piano mi passava le mani tra i capelli.”

Sògnati ancora, Daniela! – e insieme, sogna di noi, per noi. Sogna il Sogno e salvalo! Sogna di farcela – radice e volo, cuore in parola, ‘900 e 2000, Penelope nocchiera, psicomagica scalata al cielo azzurro. Questi giardini d’intorno sono alti come nuvole. Ma tu vivili, dipingili umili!, incoronata di saggezza… Oro d’amnesìa, colori implosi… Ogni fiore è un sorriso, un rimpianto, sacro un refuso, un piccolissimo, ombreggiato mistero battezzato di Dio.

Plinio Perilli

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