Ricordo quanto mi sorprese, nell’autunno del 2000, vagabondare a lungo per la metropolitana di Tokyo senza mai scorgere un solo graffito, un solo segno o disegno (di quelli che da noi trionfano lungo case e vagoni di treni e facciate di bus) su una qualsiasi parete di quel regno sotterraneo. I muri brillavano limpidi come specchi, o come icone del vuoto zen. Dov’era finito quel Trionfo dei Segni di cui, un trentennio prima, aveva dato così suggestiva testimonianza l’eterodosso semiologo Roland Barthes?

Non è necessario, qui, rispondere a questa domanda. Mi scuso anzi di aver preso le mosse da tanto lontano per introdurre, a chi non la conosca, l’opera pittorica di Daniela Tomerini. Ma il fatto è che, se pure tracciati con mano molto leggera, i segni che sfarfallano per le tele (sulle carte) della Tomerini – questi rapidi guizzanti tocchi di colori puri – vengono proprio da lontano: nascono come ripensamento (nel senso di un pensare che sia, al modo zen, un non-pensare, cioè una forma di leggerezza) di quella moderna trafila occidentale di sperimentatori del ”gesto” pittorico che si sono ampiamente nutriti di suggestioni estremo-orientali. A monte delle invenzioni della Tomerini, non è possibile non riconoscere gli estri e gli azzardi sperimentali di Mark Tobey, di Masson, di Michaux, dell’action poetry in genere, o dello stesso Barthes pittore: tutto quel variegato panorama di ricercatori che, partendo dagli ideogrammi e dai disegni cinesi e giapponesi, dalla grande tradizione espressiva a china dello shodo, hanno tentato di aprire nuove strade alla percezione occidentale del valore radicale e metamorfico delle ”tracce” e dei segni gettati sul bianco delle tele. Ma nello stile espressivo della Tomerini vibra qualcosa di originale, che lo sottrae a ogni rischio di estetismo e di maniera (sappiamo purtroppo bene quanto questo rischio sia in agguato in tutta la situazione delle arti contemporanee). Nelle sue opere, un rispetto istintivo dei segreti valori zen si coniuga col bisogno di aggirare ogni scuola, ogni tradizione: di esprimere una freschezza primaria: di dire, con l’immediatezza dell’estro, qualcosa che non ha nessun nome. Guardando e riguardando le sue tele, è come se, d’un tratto, la metropolitana di Tokio mi apparisse non più vuota, bensì pullulante di graffiti – ma di graffiti capaci di non rompere l’incanto di quel vuoto: capaci di riprendere l’energia mistica degli ideogrammi tracciati dai maestri dello shodo spostandola su un piano di pura scioltezza, lasciando che i segni possano svariare in totale libertà da un palpito di emozioni tenere e quotidiane a uno slancio d’intuizioni ardite, da un vibrare di timbri quieti e innocenti a una danza epica e febbrile, a un’ebbrezza di affondi verticali, di tuffi celesti. Cosa varrebbe continuare a dipingere, sembra dirci ogni opera della Tomerini, se in questo esercizio non brillasse la fiamma d’un gioco arreso all’estro assoluto del suo perdersi, del suo avventurarsi senza fine tra i colori, del suo gettarsi in un volo senza perché?
Da questa domanda senza risposta nascono opere in grado di fluttuare tra i venti del mondo come pure onde di grazia, come scie filanti e trascoloranti tra il rosso, l’oro, il viola e l’azzurro, come volute di ventagli flessuosi e ricciuti, come foglie innervate dal fiato dei boschi, come origami dell’impossibile, come impalpabili colpi d’ala del cielo.

Paolo Lagazzi

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